STORIE PARALLELE

Una parola per due: certificati d’investimento o di deposito? Una storia di convergenze parallele.

Avv. Vito Vittore, Avv. Luciano Morello

 Nell’attuale momento di instabilità e crisi, il mercato italiano ha puntato gli occhi su una “vecchia” fonte di funding che potrebbe rinascere come un’araba fenice, frutto delle modifiche sulla tassazione dei redditi di natura finanziaria: parliamo dei “certificati di deposito”.

Introdotti già nel dopoguerra, non sono a dire il vero mai entrati realmente in auge e in epoca più recente hanno anche patito la tassazione sfavorevole del 27% rispetto a quella del 12,5% delle obbligazioni e dei derivati. Come ormai noto, tra le novità della c.d. Manovra bis, l’introduzione dell’aliquota unica al 20% per i redditi (di capitale e diversi) di natura finanziaria ha semplificato il variegato trattamento fiscale di molti prodotti finanziari rendendo fiscalmente più efficienti alcuni prodotti fino a poco tempo fa ritenuti, almeno dal punto di vista della tassazione, meno vantaggiosi.

Tra questi, appunto, l’esempio più rappresentativo è quello dei certificati deposito, che ai sensi della nuova tassazione sono passati dal 27% al 20%.

Ma cosa sono i certificati di deposito? Si tratta di titoli nominativi o al portatore emessi dalle banche a fronte di un deposito di denaro vincolato con scadenza predeterminata effettuato da un investitore presso la banca emittente. I certificati di deposito attribuiscono all’investitore il diritto al rimborso del capitale depositato più un tasso di interesse prestabilito (fisso o variabile) liquidato periodicamente attraverso cedole o direttamente alla scadenza in un’unica soluzione. Inoltre, i certificati di deposito nominativi godono (a differenza dei certificati di deposito al portatore) della garanzia prevista dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che copre fino a 100.000 Euro per investitore.

Malgrado la durata massima consentita sia di 5 anni, sul mercato i certificati di deposito sono stati generalmente percepiti come strumenti del mercato monetario e, come tali, con breve durata, solitamente tra i 3 e i 12 mesi, e generalmente a tasso fisso. Tuttavia, la normativa ammette anche certificati di deposito a tasso variabile, anche se esclusivamente legati a parametri finanziari, come indicatori del mercato monetario (ad es. BOT, EURIBOR, LIBOR), indicatori a medio – lungo termine (ad es., RENDISTATO) e indici di borsa.

Tale circostanza potrebbe dare lo spunto per pensare a futuri sviluppi anche verso “certificati di deposito strutturati”, ossia certificati emessi a fronte di un deposito vincolato al quale viene aggiunta una componente derivativa che permette di dare esposizione ad attività sottostanti di vario genere (azioni, indici, merci, obbligazioni, etc.). A differenza dei certificati di deposito per così dire semplici, il calcolo del rendimento in questo caso sarebbe effettuato dalla banca mediante un payout per certi versi affine a quello previsto nei prodotti strutturati (obbligazioni e certificates). Qualcosa di analogo a quanto già sviluppato in altri mercati (ad esempio, Regno Unito) nella forma dei cosiddetti “structured deposits“. Una simile forma di raccolta del risparmio potrebbe chiaramente rappresentare un punto di convergenza tra le due forme “parallele” di approvvigionamento delle banche e l’approccio seguito a livello europeo in termini di regolamentazione ne sarebbe la prova (in particolare, si fa riferimento alle proposte normative a livello europeo sui c.d. PRIPS, Packaged Retail Investment Products, nel cui alveo il legislatore europeo vorrebbe far rientrare anche i depositi strutturati).

Ma le convergenze non sono poi così palesi e immediate come forse solo il nome può far credere. Ad oggi, il principale problema dei certificati di deposito è l’incertezza sulla qualificazione giuridica del prodotto: bancario o finanziario. Il dilemma non è meramente teorico e, come gli operatori del mercato stanno dimostrando, non solo di interesse per i giuristi della finanza. L’impatto dell’una o dell’altra soluzione ha ripercussioni dirette sulla modalità della loro vendita: se “prodotto bancario” sarebbe soggetto alla normativa della trasparenza bancaria (foglio informativo; schema di contratto, documento di sintesi delle principali condizioni applicabili); se “strumento finanziario” troverebbe applicazione la MIFID e la Direttiva Prospetto (anche se quest’ultima solo in linea teorica, in quanto la Consob ha affermato – tempo fa – che i certificati di deposito rientrano tra i casi di esenzione dall’obbligo di prospetto).

Proprio per questa natura, in un certo senso, ibrida, le diverse parti coinvolte si trovano accomunate dallo stesso interesse: chiarezza, relativamente alle strutture ammissibili, alla disciplina applicabile e ai vantaggi offerti. Se gli emittenti stranieri stanno a guardare se e quanto pericoloso possa rivelarsi tale prodotto per la fetta di mercato che si sono ritagliati in Italia, quelli italiani sono interessati a risolvere quanti più dubbi possibili (e il più presto possibile) per non perdere l’attimo.

Gli investitori, invece, stanno alla finestra nella speranza che dalla competizione di mercato nasca qualcosa che risponda meglio ai propri interessi. Al riguardo, va notato come la forte propensione a considerare automaticamente più convenienti i prodotti fiscalmente più efficienti, potrebbe generare come prima reazione negli investitori quella di ritenere i certificati di deposito un’immediata e vincente alternativa alle altre forme di investimento offerte dalle banche ed, in particolare, ai prodotti strutturati. Eppure, a ben vedere, come conseguenza delle finalità di armonizzazione fiscale, i prodotti strutturati e i certificati di deposito sconteranno esattamente la stessa aliquota, il 20%.

Inoltre, il confronto non può essere così immediato: si tratta infatti di prodotti diversi per natura e caratteristiche. Ad oggi i certificati di deposito non sembrano poter offrire le stesse doti di flessibilità dei prodotti strutturati, ad esempio, in termini di attività sottostanti, payout, durata, liquidità e possibilità di rimborso anticipato.

Ed anche da un punto di vista regolamentare, rebus sic stantibus, i prodotti strutturati, diversamente dai certificati di deposito, sono soggetti ad una regolamentazione chiara ed affinata in anni di operatività nel mercato italiano che ha reso gli investitori italiani maturi per questo tipo di investimento. Si aggiunga, poi, che gli investitori hanno accesso ai prodotti strutturati tramite il filtro della consulenza, laddove i certificati di deposito sono tipicamente acquistati su richiesta del risparmiatore alla banca emittente.

Tra le zone grigie dei certificati di deposito e i terreni già esplorati dei prodotti strutturati, una cosa è certa: il mercato è all’erta e attento a muoversi in un contesto regolamentare e competitivo difficile.

L’augurio è che gli investitori traggano beneficio dalla disponibilità di prodotti sempre più efficienti, siano essi strumenti finanziari o prodotti bancari.

Rubrica a cura di Hogan Lovells